Nella Grecia antica era diffusa l’opinione filosofica che il giurista dovesse perseguire come fine ultimo il bene, concetto che coincideva nella convinzione sociale e civica con quello più complesso di giustizia.
Per Platone giustizia e diritto, intesi nella loro accezione più tipica, concernono innanzitutto i rapporti sociali. La prima rende o distribuisce “a ciascuno ciò che gli spetta” (Repubblica - II 132) e, in conseguenza del suo elevato fine, deve essere esercitata all’interno della comunità ma, ancora prima, nell’interiorità dell’essere umano. Anche il concetto di diritto, pur recando in sé un pragmatismo più spiccato, è comunque vincolato al fine ultimo di perseguire la virtù sociale, oltre che la tutela di diritti più materiali quali, a titolo di puro esempio, la proprietà. Ne consegue che, secondo questa dottrina, il compito istituzionale della legislazione è quello di intervenire su materie di pubblico interesse che riguardino anche “i buoni costumi, la ginnastica, la musica e gli spettacoli”. Il primo fine del diritto è quindi, secondo Platone, un fine pedagogico: il giusto sociale viene perseguito con metodicità e praticità, nel pieno rispetto dei diritti personali, sociali e morali dell’uomo. Tanto è vero che, come lo stesso Platone sostiene nel “Politico”, lo stesso diritto è l’unico che merita il nome di legge, al punto che esso viene scoperto e gestito non da un uomo qualsiasi, ma da un essere umano in possesso di un’arte precisa, fondata su una scienza specifica, la politica intesa come scienza del giusto (dikaion, chiedo scusa). Il politico, quindi, è prima ancora filosofo, uomo teso verso il giusto in maniera quasi...