Per condurre questo esame, è necessario conoscere non solo la disciplina generale del CTS, ma la specifica disciplina di ogni categoria di enti (es. organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale: si vedano, in proposito, gli artt. 84, 85, 86 del CTS).
In termini generali, ai fini delle imposte dirette, è comunque, fondamentale esaminare l’art. 79 del CTS. Il comma 2 stabilisce la natura (commerciale o non commerciale) dell’attività di interesse generale mettendo a confronto i corrispettivi con i costi effettivi; il comma 5 determina la natura dell’ente, mettendo a confronto le entrate commerciali con le entrate non commerciali.
Il caso più agevolato fiscalmente è quello degli ETS non commerciali (si vedano gli artt. 80-86 del CTS), tenendo presente, tuttavia, che ogni soluzione comporta anche dei limiti che vanno valutati attentamente. A titolo di esempio, basta esaminare l’art. 79, c. 5-ter (perdita della qualifica di ente non commerciale), il quale prevede che il mutamento della qualifica opera a partire dal periodo di imposta in cui l’ente assume natura commerciale, con tutto quello che ciò comporta in termini di adempimenti civilistici (contabilità e bilancio) e fiscali (reddito di impresa, Imu, ecc.).
Così, considerando l’apertura di un ramo ETS da parte di un ente religioso, si devono fare i conti con 2 punti rilevanti:
- l’obbligo di destinare gli utili e avanzi di gestione all’attività statutaria o ad incremento del patrimonio del “ramo” comporta che l’ente religioso non può essere destinatario di eventuali fondi da parte del ramo;
- in caso di scioglimento, il patrimonio residuo del ramo non può tornare all’ente religioso che lo ha costituito, ma deve essere devoluto ad altro ente del Terzo settore.
Ma, il caso più emblematico da esaminare nel passaggio di un ente non commerciale a ente del Terzo settore, ci sembra quello delle Onlus. Ai sensi dell’art. 150 del Tuir, l’attività delle Onlus è totalmente decommercializzata e, ai sensi dell’art. 26 D.Lgs. 460/1997, alle Onlus si applicano, ove compatibili, le disposizioni relative agli enti non commerciali. Al momento della iscrizione al RUNTS, tali enti, non appartenendo a nessuna delle categorie specifiche di cui all’art. 46, c. 1 del CTS, confluiranno nella categoria residuale denominata “altri enti del Terzo settore”.
Nel momento in cui si diventa enti del Terzo settore, la nozione di attività commerciale cambia radicalmente (vedi art. 79, c. 2). Se l’ente (ex Onlus) gestisce attività in forma di impresa (si pensi, ad esempio, a una scuola, o a una casa di riposo) e fossero disattesi i criteri di cui all’art. 79, cc. 2 e 2-bis, l’attività svolta potrebbe assumere la natura commerciale e, verosimilmente, l’ente passerebbe da non commerciale a ente commerciale, con le conseguenze di cui abbiamo parlato sopra.
Viceversa, per una fondazione non Onlus che, ai sensi del combinato disposto dagli artt. 73 c. 4 e 55 del Tuir, fosse inquadrata come ente commerciale, diventando ente del Terzo settore, potrebbero verificarsi i presupposti di cui all’art. 79, cc. 2, 2-bis e 5 ed essere, quindi, considerata un ente non commerciale.
In questo caso si potrebbe verificare, per i beni strumentali, il fenomeno dell’autoconsumo, ai sensi dell’art. 86, c. 1, lett. c) del Tuir, con la possibile emersione di plusvalenze tassabili.
In conclusione, anche solo da questi semplici esempi, si vede chiaramente che la scelta di aderire alla Riforma del Terzo settore richiede un’attenta ponderazione dei vantaggi e degli svantaggi connessi a questa operazione. L’aspetto fiscale, in questo senso, è sicuramente molto rilevante.
