La Suprema Corte a Sezioni Unite, con la sentenza n. 11969/2025, ha delineato un quadro estremamente rigoroso in tema di indebita percezione di erogazioni pubbliche, ponendo particolare rilievo al momento genetico del diritto al beneficio. Secondo l’interpretazione fornita, si configura il reato di indebita percezione di agevolazioni pubbliche ex art. 316-ter c.p. non solo in presenza di dichiarazioni mendaci, ma anche nei casi di omessa comunicazione di condizioni ostative, ancorché non più espressamente previste dalla normativa vigente. Tale visione amplia la portata del concetto di erogazione pubblica, includendo ogni vantaggio economico ottenuto, come il semplice risparmio di spesa contributiva. Di conseguenza, la condotta penalmente rilevante si perfeziona già con la nascita del diritto al beneficio, indipendentemente dal momento in cui questo viene effettivamente fruito.
L’illecito si caratterizza per una struttura unitaria e a consumazione prolungata: la sua consumazione si conclude solo con la percezione dell’ultimo contributo, con la conseguente estensione della responsabilità nel tempo e una centralità assoluta attribuita alle dichiarazioni e omissioni rese dai soggetti coinvolti nella procedura amministrativa.
Questo orientamento impone, in concreto, un’elevata attenzione da parte dei professionisti coinvolti nelle pratiche di accesso alle agevolazioni che non possono più limitarsi a una funzione meramente esecutiva. Essi sono chiamati a verificare non soltanto la presenza dei requisiti positivi, ma anche l’assenza di qualsiasi causa ostativa, come assetti proprietari coincidenti o rapporti di collegamento tra imprese interessate da licenziamenti e assunzioni. L’omissione anche di una sola di tali condizioni comporta un rischio concreto di responsabilità penale, sia per il legale rappresentante sia per il professionista che abbia avuto un ruolo attivo o omissivo nella formazione della domanda.
Il professionista, dunque, deve mantenere un costante aggiornamento sulla disciplina di settore, poiché la normativa evolve rapidamente: oggi, il D.Lgs. 150/2015 (art. 31) e le nuove discipline sui benefici all’occupazione hanno reso generali i presupposti negativi per l’accesso agli incentivi. Tuttavia, la giurisprudenza sottolinea come la responsabilità penale possa sorgere anche in assenza di un obbligo formale di dichiarazione, laddove questa sia imposta dai principi di correttezza e trasparenza che devono caratterizzare il procedimento amministrativo.
Sul piano pratico, ciò si traduce in un innalzamento della soglia di diligenza richiesta: la verifica non può esaurirsi nella mera raccolta di dati dal cliente, ma deve concretizzarsi in un’attività istruttoria attiva e documentata, di cui sia possibile conservare prova. È fondamentale tracciare le verifiche svolte, le comunicazioni intercorse e le valutazioni operate circa l’assenza di ostacoli all’accesso al beneficio. Non va sottovalutato che la configurazione del reato come illecito a consumazione prolungata fa decorrere il termine di prescrizione dall’ultima indebita percezione, prolungando così il rischio di esposizione penale non solo per l’azienda, ma anche per il professionista che abbia contribuito, anche solo per omissione, all’illecito.
Infine, la sentenza delle Sezioni Unite evidenzia il carattere residuale ma sussidiario dell’art. 316-ter c.p. rispetto alla truffa aggravata (art. 640-bis c.p.): anche in assenza di condotte fraudolente, ma in presenza di indebita percezione di vantaggi pubblici, la responsabilità penale può essere integralmente affermata nei confronti di tutti i soggetti coinvolti, anche soltanto per omissioni informative.
In questo contesto, il professionista è investito di un obbligo di diligenza rafforzato: deve assumere un ruolo attivo di verifica e controllo, informando chiaramente il cliente sui rischi di eventuali condotte illecite e rifiutando qualsiasi coinvolgimento in operazioni non conformi alla legge. Qualora si verifichi una collusione consapevole con il cliente, il professionista, pur vedendo attenuata la propria responsabilità civile nei suoi confronti, rimarrebbe comunque esposto a gravi conseguenze penali e disciplinari, a conferma della sua funzione di garante della legalità nell’interesse pubblico.
